Il dio della bellezza. Si torna alle radici del mito. Ma quanto c'è di realmente apollineo in Young Apollo op. 16 per pianoforte e archi? Di sicuro la giovinezza: Benjamin Britten aveva ventisei anni. Era il 1939 e il barometro dell'Europa segnava tempesta. L'amico Wystan Hugh Auden era partito per l'America. Benjamin cominciò a pensare seriamente che fosse buona idea seguirlo. Insieme a Peter Pears mise in valigia carta da musica, abito da concerto, scarpe di vernice e Winterreise. I cicli di concerti andarono a gonfie vele. Come pianista solista e come liederista di lusso, Britten fu accolto molto bene, tanto da meditare un soggiorno stabile, o almeno più lungo del previsto. Nell'estate del 1939 la Canadian Broadcasting Corporation gli commissiona una Fanfara per pianoforte e orchestra. Lo spunto - anche qui letterario e/o mitologico - gli viene dal finale di una poesia incompiuta di Keats, Hyperion, con la sua visione di sole abbagliante. Young Apollo è, come la trascritta Lecture di Liszt, una Fantasia-Concerto in cui il pianoforte si ritaglia scatti giovanili più che languidamente apollinei: temi spezzati, passi staccati, arpeggi nervosi. Invece elegante e raffinata, come sempre in Britten, è la scrittura degli archi, trasparente anche nei passaggi più tesi. Nell'agosto 1939 la radio canadese trasmise il pezzo con Britten solista; in dicembre lo riprese una emittente di New York. Ma il cielo sopra l'Europa diventava sempre più scuro. Con lo scoppio della guerra, Britten tornò in Gran Bretagna, insieme a Pears, per coscienza e come obiettore di coscienza, e ritirò il pezzo. Apollo si chiuse in un cassetto e non tornò più alla luce fino al 1979. L'opera 16 non dice la verità: così libero nella forma e postmoderno nelle sue anticipazioni, Young Apollo è molto più giovane del suo numero di catalogo.
Carlo Maria Cella