Suite per due pianoforti, op. 4b, BB 122, SZ 34a


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Serenata
  2. Allegro diabolico
  3. Scena della Puszte
  4. Per finire
Organico: 2 pianoforti
Composizione: 1941
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1960

Arrangiamento della Suite n. 2 per piccola orchestra, op. 4, BB 40
Guida all'ascolto (nota 1)

La Suite op. 4 per orchestra aveva rappresentato ai suoi tempi una composizione sperimentale in un periodo di transizione e di trasformazione. Bartók si trovava allora alle soglie di un'epoca nuova, che per lui sarebbe cominciata col Primo Quartetto op. 7. Ancora legato alla tradizione straussiana e brahmsiana da un lato, influenzato dal filone nazionalistico e cavalieresco di Liszt e Erkel dall'altro, si dibatteva in una crisi venata di pessimismo ma dominata con lucidità; presagiva che qualcosa stava per accadere, ma non aveva ancora fatto le due esperienze che sarebbero state fondamentali per la sua vita artistica: più ancora che la conoscenza dell'impressionismo francese e di Debussy, la rivelazione della vera natura del canto popolare contadino, la cui assimilazione dopo la conquista avrebbe dato frutti decisivi. Queste esperienze sarebbero avvenute proprio in quegli anni, e alcune premesse se ne intuiscono nella Suite op. 4, soprattutto se messa a confronto con la robusta animosità della precedente, op. 3: rispetto alla quale essa mostra un carattere di moderazione espressiva più scoperta e un accento più riflessivo e temperato.

Bartók stesso definì la sua trascrizione di molti anni dopo come una "libera rielaborazione". E in effetti si tratta di una nuova versione tutta pensata e calcolata per le possibilità timbriche e strumentali del nuovo organico. Nel senso di una depurazione del timbro va per esempio la scrittura pianistica, equamente distribuita fra i due strumenti, in un dialogo serrato che proprio nel processo di semplificazione e di chiarificazione presuppone un atteggiamento antiretorico e disciplinato, e richiede perciò un'esecuzione sensibile e delicata. L'energia ritmica tende a perdere peso e materia, per snellirsi in figure più incisive e a tratti quasi neoclassicheggianti; ma non mancano l'imperiosa vena barbarica caratteristica del compositore, il dinamismo ritmico nei passi ostinati e nei ribattuti martellanti, la foga nelle accensioni liriche ora strepitose ora ripiegate su se stesse e la visionarietà negli effetti armonicamente più avanzati. La fitta schiera di percussioni presente nell'organico orchestrale viene sfruttata nella rielaborazione sul modello della Sonata, con una varietà timbrica ricreata sul pianoforte in modo del tutto originale. Ognuno dei quattro pezzi ha un titolo che ne definisce il clima e lo spessore: il primo è una Serenata cantata su un motivo popolare, schietto e melodicamente espanso; il secondo un Allegro diabolico di nome e di fatto, nel quale la tastiera è trattata come uno strumento a percussione; il terzo s'intitola Scena della Puszta ed è di atmosfera tranquilla e trasognata; mentre il quarto, Per finire, ha un carattere di raccoglimento, nel duplice senso di raccoglimento interiore dello spirito e di compendio delle esperienze compositive precedenti.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 maggio 1993


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Ultimo aggiornamento 9 Settembre 2012