Quartetto per archi n. 5 in si bemolle maggiore, BB 110, SZ 102


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Allegro
  2. Adagio molto
  3. Scherzo: alla bulgarese
  4. Andante
  5. Finale: Allegro vivace
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: 6 Agosto - 6 Settembre 1934
Prima esecuzione: Washington, 8 Aprile 1935
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1936
Dedica: Elizabeth Sprague Coolidge
Guida all'ascolto (nota 1)

Porre, come accade nel concerto di questa sera, Bartók dopo Kurtág significa anche ricordare il legame che unisce, quasi come l'allievo al maestro, i due compositori ungheresi. Il primo periodo dell'attività di Kurtág viene solitamente considerato di ascendenza bartokiana e il punto d'incontro lo si trova nel suo proseguire quel lavoro di studio e libera elaborazione del materiale folklorico che a lungo impegnò Bela Bartók. Ma, al di là dell'esito diverso che esprimono le opere della maturità di Kurtág, un altro contatto può essere stabilito, tra loro come tra i maggiori autori contemporanei: l'indagine sul potere e la forza di seduzione e smarrimento del suono.

Bartók scrive il Quinto Quartetto per archi nel 1934, dedicandolo a Elizabeth Sprague Coolidge. Sei anni prima aveva vinto, con il Terzo Quartetto, il prestigioso Premio Coolidge di Filadelfia, consacrazione internazionale al proprio, lavoro. In quell'occasione, un'altra opera era stata premiata: la Serenata, di Alfredo Casella.

«Espressionista ma non dodecafonico, tonale ma non neoclassico, Bartók non si è mai trincerato in problemi esclusivamente lessicali e tecnici. L'uomo moderno lo sente vicino a sé come un compagno di strada, che ha condiviso le sue illusioni e le sue speranze, che ha fatto i suoi stessi errori, che ha subito le sue stesse delusioni e disfatte, che nell'arte non ha mai cercato un rifugio o un'evasione, ma al contrario un mezzo per stabilire il contatto col proprio simile e testimoniare con aperta parola di uomo responsabile delle proprie convinzioni». Di quelle "delusioni e disfatte" di cui parla con ammirato affetto Massimo Mila, racconta anche il Quinto Quartetto. Lo compongono cinque tempi: dallo Scherzo centrale si staccano due movimenti lenti e, agli estremi, l'Allegro iniziale e l'Allegro vivace conclusivo. Una struttura già scelta da Bartók per il Quarto Quartetto. I conflitti della sua personalità artistica vivono, con programmatica evidenza, nel procedere a sbalzi, nelle sonorità taglienti che, subito, disegnano la tinta dell'opera: i frammenti melodici, che i solisti sembrano affidarsi, o negarsi l'un l'altro, vengono sommersi dal mareggiare di figure ostinate e febbrili, dal ricorrere di furiose ebbrezze ritmiche.

Nell'Adagio molto, una frase del violino tenta di tracciare un percorso in questo paesaggio di desolazione, attraversato - sono brividi - da tremoli e dal rintoccare di corde a vuoto, senza sviluppo. Quella frase si sfalda, precipita vibrante verso il silenzio che l'inghiotte. Nello Scherzo ("alla bulgara"), dopo un vortice di suono e di rumore, la musica stupisce di se stessa, fermandosi a contemplare un racconto sospeso. Poi, le sconvolgenti sonorità dell'Andante, introdotto e chiuso da glissandi: un pulviscolo sonoro, cornucopia di luce dalla quale volano via le urla dei suoni sovracuti. È ancora possibile una forma, un canto? Un motivo di danza, furtivo come uno spettro, tenta di dialogare con l'intreccio ossessivo disegnato dai movimenti precedenti. Bartók sembra temere la conclusione, la annuncia e la evita, infine la fa piombare improvvisa dopo averla preparata e rinviata. Come conciliare le anime del compositore? Il desiderio del canto e la violenta introspezione visionaria, la immaginata libertà dei mondi antichi («Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di decisiva importanza, perché m'ha reso possibile la liberazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino allora in vigore») e la lotta alla tirannia politica e sociale che non ha smesso di occuparlo, fino all'esilio americano e agli ultimi giorni di vita?

La sua immensa personalità, quelle contraddizioni che lo rendono nostro contemporaneo, appaiono tutte trasferite in questo Quartetto; specchio del suo autore, che sa risolverle in compiuta espressione artistica.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 23 Marzo 1992


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Ultimo aggiornamento 28 marzo 2015