Concerto per pianoforte n. 3 in mi maggiore, BB 127, SZ 119


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Allegretto
  2. Adagio religioso
  3. Allegro vivace
Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, xilofono, triangolo, cassa chiara, piatti, grancassa, triangolo, tam-tam, archi
Composizione: 1945
Prima esecuzione postuma: Filadelfia, 8 Febbraio 1946
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra 1946
Dedica:Ditta Pásztory
Guida all'ascolto (nota 1)

Béla Bartók è stato uno dei massimi compositori-pianisti del Novecento, con Rachmaninoff e Prokof'ev, anzi a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti e tre egli era il più energico, il più incisivo, il più autorevole, insomma il più grande. Nelle sue esecuzioni, non solo delle sue musiche ma anche dei classici del pianismo (Liszt, naturalmente, ma anche Zarathustra di Strauss, in una sua trascrizione per pianoforte!), il rigore tecnico e la concentrazione espressiva erano impressionanti senza che mai dessero neppure un'idea di esibizione. Si comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi un carattere speciale, si direbbe biografico, nel senso che ci è lecito pensare a una naturale corrispondenza di attitudini e di forze tra il creatore e la sua creazione oggettiva, quasi che egli l'avesse sentita in sé e subito scritta senza mediazioni tecniche, cioè non solo con il suo genio creativo ma anche per la propria attitudine interpretativa: e infatti Bartók era un interprete eccelso della sua musica. Lo stesso vale, è logico, per tutti i grandi compositori-pianisti, per Liszt (Chopin è isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmaninoff, ma nel caso di Bartók la severità dei mezzi e l'asciutto rapporto tra pensiero, contenuti emotivi, assai ricchi, e linguaggio ci suggeriscono nella sua musica per pianoforte una specie di identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o addirittura tra l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del musicista (elaborazione che poi nella realtà era accuratissima). Anche se questa musica non è quasi mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, ha ben poco di consueto nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per pianisti (Bartók, avendo le capacità tecniche che aveva, non componeva al pianoforte), proprio per questo, ripeto, il nesso tra l'immaginazione dell'artista, la sua indole e la pagina creata ci appare intrinseco e necessario.

Cittadino di un paese 'intermedio', l'Ungheria, Bartók col suo genio accolse in sé, elaborò, anzi conquistò due culture musicali con la loro quasi opposta natura, l'europea occidentale, e in particolare la novecentesca di tradizioni colte e individualistiche, e la danubiana-balcanica, spontanea, collettiva, rurale (che egli studiò con metodo, interessandosi anche alle culture non europee). Furono in lui due istinti e due 'passioni', la sperimentazione d'avanguardia e il primitivismo, che crearono la sua personalità di artista, il suo credo poetico, il tipicissimo linguaggio e l'inconfondibile modernità del suo stile, che quasi non conosce segni di eclettismo. Insomma, il rigore, l'energia, l'originalità della musica ci arrivano come la trasposizione sonora di un ritratto, morale ma anche fisico. E questo è un carattere che appartiene tra i moderni soprattutto, direi, alla musica di Bartók e specialmente alla pianistica.

Non desta stupore, tuttavia, che uno stile così personale sia poi maturato anche sottraendosi allo sviluppo comune della musica radicale. E sebbene tra il 1910 e il '35 circa egli abbia sperimentato ascetismi espressionistici (per esempio, il Terzo Quartetto e il Quarto) e aggressività barbariche nelle sue composizioni più avanzate, Bartók non fu mai un artista astratto. Anzi, col tempo e con i sovvertimenti politici e sociali egli, antifascista convinto, si esiliò prima dall'Ungheria, poi dall'Europa trasferendosi negli Stati Uniti: e nell'ultimo decennio della sua vita la sua musica, per il bisogno, si direbbe, di parlare a tutti, di contrastare la storia peggiore con l'arte più umana e di poter comunicare anche in una società, l'americana, che non gli era familiare - la sua musica, dunque, divenne più semplice, più cordiale (anche nel pessimismo), più lirica. Ne è esempio significativo il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.

Nel passaggio tra uno e l'altro dei due Concerti precedenti, scritti molto prima, nel 1927 e nel 19339, era già evidente la disposizione a una maggiore semplicità. Nel Terzo Concerto manca del tutto il dinamismo turbolento e la tensione di molti lavori del passato, l'architettura è chiara, rigorosa, quasi 'classica', sostenuta dalle simmetrie costruttive (e anche da celate relazioni numeriche) che Bartók prediligeva. Perfino gli assetti tonali sono precisi e i loro rapporti evidenti.

Il primo tema dell'Allegretto lo propone, asciutto e agile, il pianoforte insieme a una quieta pulsazione dei timpani, su un brusio degli archi: da una penombra spicca la forma precisa di un cantabile popolare che via via si espande sempre più rapido e nervoso. Con ammirevole fluidità virtuosistica il pianoforte allaccia al primo il breve e brioso secondo tema (la partitura prescrive: scherzando), il cui scattante schema ritmico passa dal pianoforte a ogni settore dell'orchestra. Nello 'sviluppo' sembra prevalere il primo tema ampiamente rielaborato, ma tocca al secondo tema concludere gioiosamente l'Allegretto sotto un fulmineo sberleffo del flauto.

L'Adagio religioso, in forma tripartita ABA', è una delle pagine maggiori scritte da Bartók, una meraviglia di quiete e raccoglimento. In pianissimo gli archi, sostenuti dal clarinetto, cantano con grande respiro un tema polifonico, al quale risponde, dopo un breve silenzio, il pianoforte con un corale di accordi solenni e fermi che avanzano, sostano, avanzano con una calma che sembra non finire mai. Ma la pace è drammaticamente turbata (B) da singulti, scintille e bagliori, con un crescendo di angoscia che all'improvviso si estingue, misteriosamente còme era apparsa. Oboi, clarinetto, fagotti riprendono il corale (A") prima suonato dal pianoforte, in una progressione maestosa a cui lentamente partecipa tutta l'orchestra.

L'Allegro vivace è nella forma del Rondò, nel quale a un tema di estrema eccitazione ritmica, tutto costituito com'è da note in sincope, si alterna un ilare disegno fugato. La bizzarria di questo movimento sta nell'intervento solistico, intenzionalmente buffonesco, dei timpani.

Bartók avviò già gravemente ammalato la composizione del Concerto, che per poche battute, le ultime quindici, non potè strumentare. Morì a New York il 26 settembre 1945 e il fedele amico e collaboratore Tibor Serly completò la poca parte mancante.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Bartók compose il suo Terzo Concerto per pianoforte e orchestra durante l'estate del 1945. A quel tempo era già gravemente malato e non poté completare la partitura. Le ultime diciassette misure furono ricostruite e orchestrate dal suo amico e allievo Tibor Serly, che rivide anche alcuni dettagli di scrittura, come pure le indicazioni di tempo e di metronomo, che mancavano del tutto per il terzo movimento. A quelli di Serly si aggiunsero alcuni ritocchi di Eugene Ormandy, direttore della prima esecuzione avvenuta l'8 febbraio 1946 a Filadelfia, con György Sándor al pianoforte. L'edizione della partitura, pubblicata nel 1947 da Boosey & Hawkes, dà conto con estrema cura e precisione di questi interventi. L'opera, a conti fatti, può dirsi pressoché compiuta dall'autore.

Il Terzo Concerto è, nei suoi lineamenti stilistici, un'opera tipica della tarda maniera di Bartók. Una semplice chiarezza strutturale e perfino tonale caratterizza questo lavoro. Esso si differenzia decisamente dai due Concerti per pianoforte che lo avevano preceduto, del 1926 e del 1930-31, scritti per così dire dal Bartók compositore in funzione dell'affermazione del Bartók pianista: in essi infatti lo strumento solista, con la sua scrittura martellata e aggressiva, si contrapponeva alla potente e compatta massa orchestrale in una sfida drammatica, quasi eroica. Qui ogni residuo di sfida e di competizione è concettualmente e idealmente superato: pur non escludendo contrasti, il Concerto mira alla collaborazione armoniosa, alla distillazione dei conflitti, alla serena pacatezza della contemplazione, alla raffinata concertazione. In questo tipo di pianismo più differenziato e controllato non è ininfluente il pensiero alla destinataria del Concerto, la moglie di Bartók Ditta Pásztory.

Il primo movimento, Allegretto, è in forma sonata ed è animato, in una singolare ampiezza di tratto, da una grandiosa melodia strumentale di carattere espressamente ungherese esposta prima dal pianoforte e poi ripresa dall'orchestra. Il pianoforte canta, propone, incalza, e l'orchestra raccoglie, integra e sviluppa le idee del solista. L'organicità percorre l'intero movimento e i suoi contenuti con un senso quasi classico, mozartiano, delle proporzioni.

Cuore del Concerto è l'Adagio religioso centrale, nel quale può essere visto un riferimento ispirato al Heiliger Dankgesang ("preghiera di ringraziamento") del Quartetto per archi op. 132 di Beethoven. Due assorte sezioni esterne, imperniate su figure di stampo polifonico e su una melodia corale del pianoforte, racchiudono un vasto episodio atematico percorso da fremiti metafisici, timbricamente esemplare dell'atmosfera angosciosa di tante "musiche della notte" bartókiane. L'estrema rarefazione e concentrazione della materia sembrano quasi valori a sé stanti, ma non escludono interpretazioni più suggestive o programmatiche, spirituali o laiche, come quella di Massimo Mila nel suo libro einaudiano su Bartók: "Tale il senso della religiosità a cui è fatto esplicito riferimento nell'indicazione del secondo tempo: una depurazione dei grumi troppo spessi della materia vitale, una risoluzione dei nodi tumultuosi in cui s'aggrappa la turbolenza dell'uomo sospinto dalla pienezza delle sue energie, un posare stanco dall'affanno del vivere, che se non è proprio assoluta certezza di pace futura, è almeno distacco, acquisita convinzione della vanità di tanto gioire, soffrire, sperare, lottare".

Questo distacco si oggettiva aggiungendo anche un risvolto ironico nel brillante Allegro vivace conclusivo, che il pianoforte attacca con gesto perentorio subito dopo l'Adagio: un rondò del tutto tradizionale, giocato sull'alternanza del ritornello asimmetrico, sincopato, ritmicamente incisivo, con due episodi di carattere fugato, fagocitati e rielaborati con piglio virtuosistico dal solista.

Sergio Sablich


(1)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 6 Dicembre 2008
(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 24 gennaio 2002


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Ultimo aggiornamento 28 marzo 2016