Concerto per pianoforte n. 1, BB 91, SZ 83


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Allegro moderato
  2. Andante
  3. Allegro molto
Organico: pianoforte solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, trombone basso, timpani, cassa chiara senza timbro, idem con timbro, triangolo, piatti, grancassa, tam-tam, archi
Composizione: agosto - novembre 1926
Prima esecuzione: Francoforte, 1 luglio 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927

Guida all'ascolto (nota 1)

Bartók è una personalità di spicco nel panorama della musica del Novecento e la sua ricerca artistica ha una originalità che gli deriva dalla estrema mobilità e variabilità tematica e dall'uso di accordi dissonanti di gusto espressionistico, rielaborati dal materiale folclorico magiaro e balcanico, in funzione anche di contestazione della tradizione "colta" europea. Egli stesso nella sua autobiografia ha spiegato il significato e il valore dello studio e della scoperta "in forma scientifica" della musica contadina della sua terra, che lo «portò decisamente all'emancipazione dallo schematismo dei sistemi allora in uso, basati esclusivamente sui modi maggiore e minore».

I musicologi dividono per comodità critica di analisi musicale in tre periodi la produzione bartokiana, comprendente opere teatrali, balletti, pantomime, poemi sinfonici e rapsodie, pezzi concertanti, pianistici e corali, musiche da camera varie e quartetti e suites, senza contare le numerosissime raccolte di melodie, canzoni e danze ungheresi, rumene, serbe, croate, slovene, boeme, bulgare e greche. Nel primo periodo si avverte l'influenza impressionistica e debussiana, oltre alla presenza di ritmi e danze di derivazione popolare e nazionalfolclorica. In tale ambito vanno collocati il poema sinfonico Kossuth (1903), ispirato alla lotta dell'eroe nazionale ungherese contro gli Asburgo, la Rapsodia op. 1 e i Tre canti popolari ungheresi (1907), i pianistici Dieci pezzi facili, le Quattordici bagatelle op. 6 e il Quartetto n. 1 op. 7 per archi (1908), oltre alle Due elegie, alle Due danze romene, al celebre Allegro barbaro e all'opera in un atto Il castello del principe Barbablù: l'uno e l'altra, l'Allegro e Barbablù, recanti la data del 1911, anno nel quale si esauriscono le ultime fiammate impressionistiche del musicista transilvano, che mostra peraltro una evidente preferenza per i ritmi irregolari e le modulazioni sia impetuose che cantilenanti dell'antico canzonismo popolare.

Il secondo periodo di Bartók, quello espressionistico, è compreso nel decennio della prima guerra mondiale e dei successivi rivolgimenti politici europei. Viene avviato con la Sonatina per pianoforte (1915), trascritta per orchestra nel 1931 con il titolo di Tre danze transilvane e si amplia e si consolida con il balletto Il principe di legno, presentato nel 1917 all'Opera di Budapest dal direttore d'orchestra romano Egisto Tango, e con l'altro balletto ben più famoso Il mandarino miracoloso, composto nel 1918-'19. E ancora vanno citati per le esperienze atonali e politonali il Quartetto n. 2 op. 17 per archi (1915-'17), la Suite op. 14 per pianoforte (1916), le due Sonate n. 1 e n. 2 per violino e pianoforte (1921-'22), senza voler dimenticare i Quartetti n. 3 e n. 4 per archi (1927-'28), che insieme al Primo e al Secondo Concerto per pianoforte e orchestra, rispettivamente del 1926 e del 1930-'31, lasciano intravedere un richiamo a modelli neoclassici e di gusto bachiano, anche se intesi con sensibilità moderna. Nel pieno di questa stagione espressionistica gravi avvenimenti incisero nella vita di Bartók: dalla caduta dell'impero asburgico, in seguito alla quale il musicista, con Erno Dohnànyi, Kodàly e altri aderenti al governo popolare di Bela Kun, costituisce una specie di direttorio inteso a rinnovare le istituzioni musicali d'Ungheria, al crollo dello stesso Bela Kun, che portò all'estromissione di Bartók dal vertice dell'ambiente artistico budapestino e al suo isolamenteo e alla sua crisi familiare con il divorzio dalla moglie Marta Ziegler e il secondo matrimonio con una giovane allieva, Edith Pastory, eccellente pianista, che lo spinge a riprendere la carriera del concertista e a farsi valere anche sul piano internazionale, fuori dei confini ungheresi, propiziando l'avvento del terzo periodo creativo, il più importante di tutti, generalmente collocato fra il 1934 e il 1939, allorché vengono alla luce, dopo la cantata profana I nove cervi fatati, del 1930, improntata ad un nobile impegno civile il Quartetto n. 5 per archi (1934), la Musica per archi, celesta e percussione (1936), la Sonata per due pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-'38), il Divertimento per archi (1939), contemporaneo al Quartetto n. 6 pure per archi, ultimo della serie iniziata più di trent'anni prima.

A questi lavori si aggiungono come ultimo messaggio della creatività di Bartók la Sonata per violino solo scritta su richiesta di Yehudi Menuhin e il Concerto per orchestra, ambedue del 1943-'44, il Concerto per viola e orchestra (1945) e il Terzo concerto per pianoforte e orchestra, dello stesso anno, lasciati incompiuti dal musicista stroncato dalla leucemia a New York il 26 settembre 1945 e morto in povertà, tanto che le spese dei funerali furono sostenute dalla Società americana per i diritti d'autore.

Il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra fu scritto da Bartók tra l'agosto e il novembre del 1926 e la prima esecuzione ebbe luogo il 1° luglio 1927 a Francoforte con l'orchestra diretta da Wilhelm Furtwaengler e lo stesso autore al pianoforte, senza grande successo per lo stile essenzialmente ritmico e tagliente affidato alla parte del solista, lontana da qualsiasi abbandono melodico e di stampo romantico. Nella struttura e nel linguaggio tale Concerto risente una certa influenza del Concerto per pianoforte e orchestra a fiati composto nel 1924 da Stravinsky: infatti il discorso musicale punta in prevalenza sui fiati e sulla percussione e presenta un carattere rapsodico ed estremamente vario nella tessitura timbrica e ritmica. Una pulsazione secca e precisa si avverte sin dall'Allegro moderato, in cui il pianoforte si esprime con sonorità nette e ben marcate, secondo una concitazione vivace e senza respiro, sorretta da una solida tessitura strumentale. L'Andante del secondo tempo è caratterizzato da una progressione insistente e ripetitiva indicata dal pianoforte e rafforzata in un rapporto dialogante sempre dai fiati e dalla percussione. Si respira un'atmosfera di marcia funebre e alla fine tutto si dissolve tra accordi sfumati e delicatamente pensosi. L'Allegro molto del terzo tempo si snoda tra brillanti sfaccettature ritmiche e festosi accenti folclorici, con timpani e batteria dialoganti con il pianoforte, che assume un ruolo di travolgente e serrato virtuosismo, quasi a richiamarsi in un certo senso alla migliore tradizione dei concerti per strumento a tastiera e orchestra.


(1)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 17 marzo 1985



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Ultimo aggiornamento 12 aprile 2011