Concerto per orchestra, BB 123 (SZ 116)


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Andante non troppo, Allegro vivace
  2. Gioco delle coppie: Allegretto scherzando
  3. Elegia: Andante non troppo
  4. Intermezzo interrotto: Allegretto
  5. Finale: Pesante
Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi, (3 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo militare, grancassa, tam-tam, piatti, triangolo, 2 arpe, archi
Composizione: 15 Agosto - 8 ottobre 1943 (revisione febbraio 1945)
Prima esecuzione: Boston, Synphony Hall, 1 dicembre 1944
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1946
Dedica: Fondazione Musicale "Koussevitzky"

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Scritto da Bartók nel 1943 durante i difficili anni del suo esilio americano, il Concerto per orchestra, termine con cui si indica il ruolo virtuosistico e concertante svolto dalle diverse sezioni strumentali, fu accolto da un successo di pubblico tale da garantirgli per anni centinaia di repliche in tutto il mondo, ma al tempo stesso fece storcere il naso a molti dei critici più intransigenti, i quali accusarono l'autore di aver abbandonato la propria fedeltà «giacobina» nei confronti della dissonanza per mostrarsi accondiscendente verso i facili gusti del pubblico americano.

Se è vero che in quest'opera Bartók tende a smussare i tratti più aspramente anticonformisti del proprio scrivere (basti il confronto con la Sonata per due pianoforti e percussioni), si può altresì constatare come egli non rinunci a molti degli elementi più caratteristici del suo modo di comporre. Ricorrono quindi: l'asimmetria ritmica delle melodie, le reiterazioni ostinate, gli accelerando, i fugati, i motivi ispirati alla tradizione popolare ungherese; mentre caratteristica propria di quest'opera è l'uso di intervalli di quarta combinato con gradi congiunti nella formazione della maggior parte dei temi. Tutto ciò rientra a sua volta in un rigoroso impianto architettonico che, oltre all'uso delle tradizionali forme sinfoniche e di una breve introduzione monodica all'inizio di ogni movimento, prevede una disposizione simmetrica a piramide dei cinque movimenti. Attorno al tempo lento centrale Bartók colloca infatti i due movimenti più «leggeri» aventi indicazione Allegretto (II e IV), mentre all'esterno troviamo i due tempi (I e V) più ampi e complessi, scritti in forma sonata con tempo veloce. A fronte di tale combinazione speculare dei tempi e delle forme, il contenuto espressivo dell'opera viene invece svolto in maniera lineare. Il Concerto, a detta dello stesso autore, «rappresenta una lenta evoluzione dal tono severo del primo movimento, all'affermazione di fede nella vita del quinto». Un percorso simile a quello della Sonata per due pianoforti e percussioni, avente come passaggi intermedi la leziosità del neoclassico Gioco delle coppie, l'impressionistica, e a tratti drammatica, atmosfera dell'Elegia, e la multiforme varietà dell'Intermezzo interrotto che, con il suo ironico parodiare, apre la strada all'ottimismo carico di vitalità del Finale.

Andante non troppo (Introduzione) - Allegro vivace. L'Andante non troppo che fa da prologo al primo tempo si apre con un cupo profilo melodico dei bassi seguito da leggeri fremiti di archi e flauti, nel quale troviamo il germe tematico di tutta l'opera: l'intervallo melodico di quarta. Dopo la terza e più ampia enunciazione di questo spunto iniziale, i flauti, e successivamente le trombe, delineano il motivo tematico dell'Andante. Con un forte improvviso il tema si trasforma quindi in un grido lancinante dei violini, mentre una breve coda conduce all'Allegro vivace con un ostinato accelerando.

Energico e risoluto, il primo tema dell'Allegro vivace si muove asimmetricamente con agile disinvoltura, per poi trascolorare in un fraseggio meno spigoloso e più cantabile. Una breve frase dei tromboni fa quindi da collegamento con il secondo gruppo tematico: un sinuoso e ondulatorio motivo che l'oboe disegna su una base fissa di quinte ribattute.

Un improvviso stacco dinamico dà il via allo Sviluppo che si apre con una ridondante riproposizione del primo tema. In netto contrasto con questa prima parte Bartók inserisce un'oasi centrale nella quale il clarinetto riporta a un'atmosfera più pacata e rarefatta. Si noti come Bartók non crei mai uno scontro dialettico tra primo e secondo tema (quest'ultimo è assente nello Sviluppo), ma preferisca la suggestiva alternanza tra la pulsione ritmica e la staticità proprie dei due temi stessi. Ritorna quindi con forza il primo tema sul quale si intreccia subito un fugato degli ottoni formato dal motivo di collegamento, che, appena punteggiato da brevi interventi dell'orchestra, culmina in un potente unisono. La successiva Ripresa ripropone inaspettatamente secondo tema e primo tema in ordine invertito, mentre uno stacco degli ottoni basato sulla melodia di collegamento conclude il movimento.

Il gioco delle coppie (Allegretto scherzando). Il secondo movimento è un divertito gioco orchestrale nel quale, dopo una breve introduzione del tamburo, coppie di fiati, tra loro uguali, si muovono parallelamente a distanza intervallare fissa, sviluppando una scanzonata e saltellante melodia in continuo divenire. Troviamo in ordine: i fagotti che si muovono a distanza di sesta, gli oboi per terze, i clarinetti per settime, i flauti per quinte e le trombe per seconde, mentre un solenne corale degli ottoni di reminiscenze mahleriane viene posto come perno centrale del movimento. La prima parte viene quindi ripresa con diverse varianti che prevedono l'aggiunta di ulteriori strumenti alle coppie originarie, il tutto seguito da una breve coda formata da movimenti percussivi a note ribattute.

Elegia (Andante non troppo). Dopo la cupa e misteriosa introduzione monodica di contrabbassi e timpani, si forma un tenue tappeto d'archi, increspato dagli ondeggianti glissati dell'arpa con eco di flauti e clarinetti, su cui l'oboe disegna una melodia cromatica, cristallizzata in tessitura acuta. Vi è quindi un lento fluire intrecciato di fiati e archi su cui spunta il sottile canto dell'ottavino. Quest'aura fissa e irreale viene rotta dall'improvviso ritorno del tema dell'Andante iniziale, che lascia spazio a un nuovo delicato tappeto sonoro a ondulazioni cromatiche sul quale si sovrappone il flebile suono dell'ottavino.

Un nuovo spunto melodico delle viole viene ripreso dai legni inframmezzati da elastici stacchi accordali dell'orchestra, mentre il ritorno del fluire intrecciato viene interrotto dal tema che, dopo aver toccato il suo punto culminante, si dissolve rapidamente ponendo fine all'ultimo momento intensamente drammatico del concerto. La ripresa variata della sezione iniziale è infine seguita dal tema iniziale dei contrabbassi ripresentato dai violini e da una delicata ondulazione dell'ottavino sospeso in tessitura acuta.

Intermezzo interrotto (Allegretto). Forza espressiva, grazia, passione, umorismo si alternano nel quarto tempo in un carosello di contrastanti emozioni non privo di sottile ironia. Fin dall'inizio il vigoroso unisono introduttivo degli archi appare in contrasto con il primo tema che, con il suo grazioso incedere, richiama la melodia del Gioco delle coppie. Appassionato e struggente è invece il secondo tema introdotto dalla viola e ripreso dai violini, e seguito da una momentanea ripresa del primo tema. L'accompagnamento degli archi passa quindi da 5/8 a 8/8 dando spazio a una nuova melodia del clarinetto che corre veloce verso uno stacco orchestrale di carattere farsesco; due grotteschi glissati di trombone introducono quindi una sorta di giostra orchestrale nella quale viene elaborato il tema del clarinetto con ulteriori spunti clowneschi. La ripresa del secondo tema crea un ulteriore mutamento d'atmosfera, per poi lasciare spazio a una frammentata successione di elementi del primo tema e a una cadenza del flauto seguita da una breve coda conclusiva.

Finale. Dal perentorio unisono introduttivo dei corni prende il via il primo gruppo tematico con un fitto brulicare degli archi, in graduale crescendo, che libera la sua energia in un breve ma incisivo spunto tematico. Il moto degli archi si articola quindi attraverso diverse sezioni orchestrali culminando in un ostinato ossessivo che lascia spazio a un breve fugato sul motivo iniziale dei corni. I due pacati episodi successivi portano al secondo gruppo tematico nel quale un'incalzante reiterazione di una cellula ritmico-melodica che ricorda una danza popolaresca, sostiene il brillante e irresistibile motivo della tromba.

Introdotto da un breve sussurro di archi e arpe, lo Sviluppo presenta un vibrante fugato che prende vita dal malizioso ammiccare del secondo tema, seguito da ulteriori elaborazioni del tema stesso.

Nella Ripresa il primo tema appare sottoposto a sostanziali variazioni, mentre un graduale dispiegarsi quasi impercettibile di terzine degli archi sostiene il tema introduttivo dei corni dilatato dal fagotto, e frammentari ma incessanti interventi dei fiati. Il trascinante inno alla vita che viene sotteso in quest'ultimo movimento tocca la sua espressione trionfale con l'esplosione di una potente fanfara degli ottoni, i cui accenti blues in stile gershwiniano appaiono un evidente omaggio dell'autore al nuovo mondo che da tre anni lo ospitava. Il secondo tema viene qui dilatato e stravolto nei suoi valori ritmici, mentre una breve e travolgente galoppata orchestrale che culmina su un penetrante unisono, e una coda, nella quale gli ottoni declamano per l'ultima volta un piccolo frammento del secondo tema, costituiscono gli ultimi imperiosi gesti con cui si chiude il concerto.

Carlo Franceschi de Marchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I musicologi dividono per comodità critica di analisi musicale in tre periodi la produzione bartokiana, comprendente opere teatrali, balletti, pantomime, poemi sinfonici e rapsodie, pezzi concertanti, pianistici e corali, musiche da camera varie, quartetti e suites, senza contare le numerosissime raccolte di melodie, canzoni e danze ungheresi, rumene, serbe, croate, slovene, boeme, bulgare e greche. Nel primo periodo si avverte l'influenza impressionistica e debussiana, oltre alla presenza di ritmi e danze di derivazione popolare e nazionalfolclorica. In tale ambito vanno collocati il poema sinfonico Kossuth (1903), ispirato alla lotta dell'eroe nazionale ungherese contro gli Asburgo, la Rapsodia op. 1 e i Tre canti popolari ungheresi (1907), i pianistici Dieci pezzi facili, le Quattordici bagatelle op. 6 e il Quartetto n. 1 op. 7 per archi (1908), oltre alle Due elegie, alle Due danze rumene, al celebre Allegro barbaro e all'opera in un atto Il castello del prìncipe Barbablù: l'uno e l'altra, l'Allegro e Barbablù, recanti la data del 1911, anno nel quale si esauriscono le ultime fiammate impressionistiche del musicista transilvano, che mostra peraltro una evidente preferenza per i ritmi irregolari e le modulazioni sia impetuose che cantilenanti dell'antico canzonismo popolare.

Il secondo periodo di Bartók, quello impressionistico, è compreso nel decennio della prima guerra mondiale e dei successivi rivolgimenti politici europei. Viene avviato con la Sonatina per pianoforte (1915), trascritta per orchestra nel 1931 con il titolo di Tre danze transilvane e si amplia e si consolida con il balletto Il principe di legno, presentato nel 1917 all'Opera di Budapest dal direttore d'orchestra romano Egisto Tango, e con l'altro balletto ben più famoso Il mandarino miracoloso, composto nel 1918-'19. E ancora vanno citati per le esperienze atonali e politonali il Quartetto n. 2 op. 77 per archi (1915-'17), la Suite op. 14 per pianoforte (1916), le due Sonate n. 1 e n. 2 per violino e pianoforte (1921-'22), senza voler dimenticare i Quartetti n. 3 e n. 4 per archi (1927-'28), che insieme al Primo e al Secondo Concerto per pianoforte e orchestra, rispettivamente del 1926 e del 1930-'31, lasciano intravedere un richiamo a modelli neoclassici e di gusto bachiano. Nel pieno di questa stagione espressionistica gravi avvenimenti incisero sulla vita di Bartók: dalla caduta dell'impero asburgico, in seguito alla quale il musicista, con Erno Dohnànyi, Kodàly e altri aderenti al governo popolare di Béla Kun, costituisce una specie di direttorio inteso a rinnovare le istituzioni musicali d'Ungheria, al crollo dello stesso Béla Kun, che portò all'estromissione di Bartók dal vertice dell'ambiente artistico budapestino e al suo isolamento e alla sua crisi familiare con il divorzio dalla moglie Marta Ziegler e il secondo matrimonio con una giovane allieva, Edith Pastory, eccellente pianista, che lo spinge a riprendere la carriera del concertista e a farsi valere anche sul piano internazionale, fuori dei confini ungheresi, propiziando l'avvento del terzo periodo creativo, il più importante di tutti, generalmente collocato fra il 1934 e il 1939, allorché vengono alla luce, dopo la cantata profana I nove cervi fatati, del 1930, dettata da un nobile impegno civile, il Quartetto n. 5 per archi (1934), la Musica per archi, celesta e percussione (1936), la Sonata per due pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-'38), il Divertimento per archi (1939), contemporaneo al Quartetto n. 6 pure per archi, ultimo della serie iniziata più di trent'anni prima.

A questi lavori si aggiungono come ultimo messaggio della creatività di Bartók la Sonata per violino solo scritta su richiesta di Yehudi Menuhin e il Concerto per orchestra, ambedue del 1943-'44, il Concerto per viola e orchestra (1945) e il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, dello stesso anno, lasciati incompiuti dal musicista stroncato dalla leucemia a New York il 26 settembre 1945 e morto in povertà, tanto che le spese dei funerali furono sostenute dalla Società americana per i diritti d'autore.

Il Concerto per orchestra fu scritto precisamente dal 15 agosto all'8 ottobre 1943 su ordinazione della Fondazione Koussevitzky ed eseguito per la prima volta a Boston il 1° dicembre del 1944 dalla celebre Orchestra Sinfonica di quella città. Lo stesso autore spiegò in quella occasione il carattere della composizione e il perché della scelta del titolo, affermando quanto segue: «II complessivo assunto espressivo del lavoro presenta, se si prescinde dallo scherzoso secondo movimento, una grande transizione dalla severità del primo tempo e dal lugubre canto di morte del terzo all'affermazione di vita dell'ultimo. Il titolo di questo lavoro orchestrale simile ad una sinfonia è spiegato dalla tendenza a trattare ogni singolo strumento dell'orchestra in modo concertante o solistico. Il trattamento virtuosistico appare per esempio nelle sezioni fugate dello sviluppo della prima parte (realizzato dagli ottoni) o nei passaggi in guisa di perpetuum mobile del tema principale che gli archi espongono nell'ultimo movimento, e soprattutto nel secondo movimento in cui coppie di strumenti si presentano con brillanti passi».

Il Concerto si apre con una Introduzione lenta (Andante non troppo) caratterizzata da un indistinto brusìo degli archi, da cui emerge un tema breve come un inciso, prima enunciato dal flauto, poi ripreso pianissimo a mò di fanfara dalle trombe, quindi sviluppato dagli archi e dai legni in una vivace concitazione. Esplode un Allegro vivace con un tema affidato agli archi ritmicamente frazionato e rimbalzante ai legni; alla fine interviene il trombone con una fase marcata e ad ampi intervalli. Diverso è il tono del secondo gruppo tematico, dove si ritorna ad un movimento più tranquillo e melodico. Al centro si ode una robusta fanfara degli ottoni, che raccoglie ed esalta secondo un procedimento fugato il nucleo tematico del trombone già apparso in precedenza e trattato ora anche ad intervalli rovesciati.

Il secondo movimento reca in italiano il titolo di Giuoco delle coppie ed è un Allegro scherzando su una melodia umoristica e vagamente grottesca, distribuita successivamente tra due fagotti, due oboi, due clarinetti, due flauti, due trombe, in una specie di rassegna degli strumenti a fiato sulla base di un contrappunto degli archi pizzicati. Un grave e solenne corale degli ottoni funge da Trio centrale; poi riprende il gioco delle coppie strumentali in un'atmosfera di scherzose armonie.

L'Elegia del terzo tempo è contrassegnata da un canto intenso e appassionato, arricchito da screziature e fosforescenze orchestrali di sfumati colori notturni. In netta contrapposizione psicologica si colloca l'Allegretto del quarto tempo, recante anch'esso un titolo italiano: Intermezzo interrotto. È un rondò vivace e popolaresco costruito su tre temi: il primo dal ritmo disuguale; il secondo più disteso e cantabile, esposto prima dalle viole e poi dai violini; il terzo accentuatamente caricaturale e riproducente il motivo utilizzato da Sostakovic nella Settima sinfonia detta "di Leningrado" per descrivere la marcia dell'esercito nazista durante l'invasione dell'URSS nell'ultima guerra mondiale. A proposito del secondo tema Massimo Mila ha osservato: «Avrebbe mai ammesso una melodia simile il Bartók severo, il Bartók dell'avanguardia rigorosa degli Anni Trenta, l'autore del terzo, quarto e quinto Quartetto, l'autore dei rigidi pezzi pianistici del Mikrokosmos? È probabile di no. Può darsi che la melodia sia di autentica origine contadina, ma il sospetto di una certa concessione a compiacimenti ziganeggianti è inevitabile. Il fatto è che la prospettiva dell'artista, nella lontananza dell'esilio, è mutata: certi scrupoli di rigore scientifico hanno perduto un po' della loro ragion d'essere nell'incendio della guerra che devasta la patria lontana, e un uguale empito di tenerezza forse abbraccia nel ricordo tanto i sobri contadini della pianura magiara, quanto gli zingari pittoreschi e fanfaroni, decimati anch'essi dalla persecuzione hitleriana».

Il Presto finale, introdotto da poche battute in tempo pesante con una specie di motto dei corni, è un vertiginoso intreccio di danze popolaresche. Si ode il suono festoso delle trombe sul fitto moto perpetuo di violini e viole; si inserisono i corni e dopo varie alternative il Concerto si conclude con un gioioso fugato dei flauti, quasi a riaffermare un sentimento di fiducia nei valori della vita. Da segnalare infine, l'organico dell'orchestra piuttosto massiccio, con quattro strumenti per ogni categoria di legni, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, due arpe, una percussione abbastanza nutrita e un proporzionato schieramento di archi.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«Scritto per la Koussevitzky Music Foundation in memoria della signora Natalie Koussevitzky», è detto nella dedica del Concerto per orchestra, commissionato a Bartók da Serge Koussevitzkjlj nel maggio 1943, composto tra l'agosto e l'ottobre dello stesso anno ed eseguito per la prima volta a Boston il 1 dicembre 1944, dalla Boston Symphony Orchestrai con Koussevitzky sul podio. «Il titolo di questa composizione per orchestra - scrisse l'autore in una nota di presentazione per la prima esecuzione - è spiegato dalla sua tendenza a trattare certi strumenti o gruppi di strumenti in maniera solistica o concertante». Accanto ad una tecnica compositiva giunta ormai alla sua massima perfezione trovano posto, nella partitura, riferimenti più espliciti che in precedenti pagine alla grande tradizione sinfonica che nutre la formazione bartókiana: quella che reca il nomi di Brahms, Liszt, Richard Strauss Rimskij-Korsakov.

La forma del Concerto per orchestra, in cinque tempi, offre un altro esempio della struttura "a ponte" tipica della maturità bartókiana. Attorno al tempo centrale (Elegia: Andante non troppo), la cui intensa espressività lirica si avvale di moduli tematici e ritmici del folclore ungherese, si dispongono una coppia di tempi esterni (il primo Introduzione: Andante non troppo, Allegro vivace e il quinto Finale: Pesante) di ampia estensione e nella classica forma-sonata, accomunati da forti affinità tematiche. Il secondo e il quarto tempo (rispettivamente Gioco delle coppie: Allegretto, scherzando e Intermezzo interrotto: Allegretto) sono entrambi costruiti secondo lo schema ABA di uno scherzo con trio, e caratterizzati da una scrittura più animata e informale, elegantemente padrona di se stessa. Val la pena di segnalare che nel Concerto per orchestra figurano, fatto insuale in Bartók, pagine composte precedentemente all'insieme della partitura, e originariamente destinate a un balletto.

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Ai primi di aprile del 1940 Béla Bartók s'imbarcò a Napoli sul Rex, diretto alla volta di New York. Sotto il pretesto di un giro di concerti con il violinista Szigeti, il viaggio aveva un essenziale scopo esplorativo: sondare le possibilità di residenza e di lavoro negli Stati Uniti, in vista di un eventuale trasferimento. Nella vecchia, cara Europa, divampavano le fiamme della guerra; da due anni, dalla annessione che aveva segnato la fine dell'Austria, Bartók viveva in una tormentosa angoscia, sempre più acuta, per la tragica sequenza delle vicende d'Europa: anche se, per il momento, l'Ungheria, patria del musicista (era nato a Nagyszentmiklós nel 1881), non appariva minacciata.

Assunto dalla Columbia University di New York per il biennio 1941/42, con l'incarico di riordinare e studiare le musiche balcaniche in possesso dell'istituto (un compito fatto su misura per un musicista da sempre appassionato del canto popolare e del folclore nazionale della sua terra), Bartók abbandonò definitivamente l'Europa a fine ottobre del 1940, con la moglie Ditta de Paszthóry, dopo aver trascorso la sua ultima estate in patria. A Budapest, invano Zoltàn Kodàly aveva tentato di persuaderlo che il suo posto, in tempi sì oscuri, era la natia Ungheria. Ma era allora l'Ungheria ancora quella di un tempo?

In un testamento, vergato prima di partire, Bartók vietava fra l'altro che al suo nome venissero intestate vie o piazze ungheresi, finché sulle targhe della città di Budapest fossero rimasti impressi i nomi, da poco innalzati a effimera, funesta gloria, di Hitler e Mussolini.

Non che Bartók si illudesse troppo sulla sua nuova vita nord-americana: «Dall'incertezza - aveva confidato agli amici di Budapest - compio il salto verso una insopportabile sicurezza». I cinque ultimi anni trascorsi in America furono i più difficili, amari e tristi, della sua vita. Anzi esacerbati da gravi difficoltà economiche, soprattutto dopo la scadenza, senza rinnovo, dell'incarico all'università, e dal progressivo acuirsi del male, una forma di leucemia, che lo avrebbe condotto alla tomba. A differenza del suo grande contemporaneo europeo legato da un medesimo destino, Arnold Schönberg, Bartók respinse fermamente ogni concreta offerta di aiuto finanziario, e altrettanto fermamente ricusò di impartire redditizie lezioni di composizione, per cui gli americani, addosso ai quali la guerra aveva fatto piovere una vera manna di esuli della musica europea, andavano letteralmente pazzi. Ma la composizione, asseriva Bartók, non si può insegnare. Che poi egli fosse, in assoluto, un mostro di didatta, è altro discorso: perché in ventisette anni di permanenza come docente al Conservatorio di Budapest, aveva voluto insegnare sempre solo il pianoforte.

Restava, unica via di uscita, la composizione come attività creativa, se qualcuno l'avesse patrocinata. Fu così che, su interessamento di due noti musicisti ungheresi, il direttore d'orchestra Fritz Reiner e il violinista e amico Joseph Szigeti, nel luglio del 1943 l'allora direttore dell'Orchestra Sinfonica di Boston, Serge Kussewitzky, chiese a Bartók di scrivere un lavoro orchestrale, da dedicare alla memoria della consorte Natalie. E, tra agosto e ottobre, nella quiete di un soggiorno di cura e di riposo a Saranac Lake, Bartók compose il Concerto per orchestra, primo di quei sommi capolavori in cui si compendia la produzione americana di Bartók fino alla morte, sopravvenuta, a sessantaquattro anni, il 26 settembre 1945; gli altri essendo la Sonata per violino solo (scritta per il violinista Yehudi Menuhin), l'incompiuto Concerto per viola (commissionato da Walter Primrose) e il Terzo Concerto per pianoforte, composto quale lascito e ricordo alla moglie Ditta, valente pianista.

Il Concerto per orchestra venne eseguito per la prima vola a New York il 1° dicembre 1944, con esito trionfale, sotto la direzione di Kussewitzky. L'architettura del lavoro corrisponde a quella di un'ampia Sinfonia in cinque tempi, ma il titolo di Concerto è giustificato dall'autore stesso, nelle note redatte per la prima esecuzione: «Il titolo di questo lavoro orchestrale simile a una sinfonia è dato dalla tendenza a trattare i singoli strumenti dell'orchestra in stile concertante o solistico. L'elemento virtuosistico si palesa, ad esempio, nelle sezioni fugate dello sviluppo del primo tempo (ottoni) o nei passaggi a guisa di moto perpetuo del tema principale dell'ultimo tempo (archi), e specialmente nel secondo tempo, ove coppie di strumenti entrano successivamente con passaggi brillanti... L'aspetto generale del lavoro rappresenta, a parte il danzante secondo tempo, un graduale passaggio dalla severità del primo tempo e dal cupo canto di morte del terzo all'affermazione di vita dell'ultimo tempo».

Nel Concerto per orchestra, pagina di rasserenata e meditata riflessione, quasi un'oasi di pace dopo tanti tumulti spirituali, rimane in apparenza ben poco dell'aggressiva tensione ritmica e delle taglienti immagini timbriche di altre opere orchestrali bartokiane (basti pensare alla Musica per strumenti a corda, celesta e percussione del 1936), senza che per questo si renda credibile la tesi secondo cui Bartók sarebbe stato condizionato da «esigenze di mercato» nei confronti del pubblico americano. Altri, invece, appaiono i valori di cui è intessuta la preziosa partitura: come se, in sostanza, si trattasse di un ritorno alle esperienze compiute in gioventù dal maestro, rivisitate ora con la saggezza dolorosa della vecchiaia, riunendo le espressioni di un patrimonio culturale e musicale che da Liszt, Brahms, Strauss e financo Debussy arriva al tocco leggero di quell'autentico filone etnico magiaro, tanto amato e indagato da Bartók nel corso di tutta la vita.

Una rievocazione ora attonita (la stupenda «musica notturna» del terzo tempo, intitolato Elegia), ora sferzante di ironia e di malizioso humour (la citazione fantasiosa, nel quarto tempo, denominato in italiano «Intermezzo interrotto», del tema del trionfale crescendo della Settima Sinfonia, detta «di Leningrado», di Sciostakovic, congegnata a bella posta per sottolineare la parentela del tema «eroico» di Sciostakovic con una frivola canzonetta, di sapore viennese, dalla Vedova allegra di Lehar). Giustamente ha scritto Massimo Mila: «Il sacro e il profano, il carattere e il caratteristico, l'essenzialità della melodia contadina magiara e il pittoresco si conciliano nel Concerto per orchestra, unificati dalla Stimmung fondamentale che è la nostalgia dell'esule, lo spasimo intenerito della rievocazione».

Sergio Sablich


(1)  Testo tratto dal n. 67 (Giugno 1995) della rivista Amadeus
(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 23 Marzo 1991
(3)  Testo tratto dal Repetorio della Musica Sinfonica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze
(4)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 6 dicembre 1985



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Ultimo aggiornamento 25 dicembre 2012