Ouverture n. 3 in re maggiore per orchestra, BWV 1068


Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Ouverture
  2. Air
  3. Gavotte I
  4. Gavotte II
  5. Bourrée
  6. Gigue
Organico: 3 trombe, timpani, 2 oboi, 2 violini, viola, continuo
Composizione: 1731
Edizione: Peters, Lipsia, 1854
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Con i Concerti Brandeburghesi, le quattro Suites per orchestra - BWV 1066/69 - costituiscono, nell'ambito della musica profana d'intrattenimento, il risultato probabilmente più alto fra quelli conseguiti da Bach nel corso del suo soggiorno a Köthen (fra il 1717 e il 1723). Nella cittadina sassone Bach ricopriva la carica di Kapellmeister (esonerato però dalla produzione religiosa) presso la corte del principe Leopold, mecenate sensibile alla musica ed incline, come del resto la maggior parte degli altri sovrani tedeschi, a rendere fastosa la vita della propria corte con uno sfarzo apertamente ispirato all'esempio di Versailles. Questa penetrazione del gusto francese in terra tedesca, fertile trasfusione di stimoli intellettuali, trovava una realizzazione di particolare significato proprio nella diffusione della musica strumentale di danza (espressione dell'elegante disimpegno della corte francese) secondo gli stilemi elaborati da Lully.

Destinato a una funzione ricreativa e di intrattenimento, il genere della suite di danze (le cui origini risalivano al Rinascimento) aveva trovato proprio in Germania una struttura codificata nella successione di quattro brani: Allemanda, Corrente, Sarabanda, Giga (fra le quali potevano eventualmente essere inserite altre danze). Non a caso, tuttavia, tutte e quattro le suites bachiane - indicate dai contemporanei come ouvertures, per metonimia dal primo brano di ciascuna delle composizioni - espellono sistematicamente da questa successione consacrata proprio l'Allemanda, danza tedesca per eccellenza, ed accolgono solo occasionalmente le altre tre danze; la maggior parte dei pezzi prescelti consiste invece in danze la cui matrice francese è palese già dai semplici nomi (ad esempio: bourrée, passepied, badinerie, réjouissance).

In questo le suites di Bach aderiscono perfettamente alla loro funzione e all'estetica del tempo. Il modello francese però, assunto dal compositore come principio antologico generale, viene applicato con una libertà di rielaborazione, una fertilità inventiva e una consapevolezza tecnica che distinguono le quattro composizioni dal conformismo della sterminata produzione contemporanea, e conferiscono a ciascuna di esse un profilo specifico.

La terza Suite, in re maggiore, risalente al termine del soggiorno di Köthen - anche se fu certamente rielaborata intorno al 1730 per il Collegium musicum di Lipsia - si affida a un organico piuttosto nutrito, a dieci parti (tre trombe, timpani, due oboi, violini primi e secondi, viole e continuo). L'unico brano a contemplare questo organico nella sua interezza è però l'Ouverture vera e propria; si tratta di una pagina aulica, che ricalca lo schema tripartito di matrice lulliana, con due sezioni in tempo Grave - che incedono maestosamente secondo il caratteristico ritmo puntato francese - che incorniciano una centrale sezione fugata, impreziosita da sezioni concertanti degli archi. Esclusivamente agli archi è affidata l'Air, pagina divenuta celeberrima attraverso i più svariati arrangiamenti, che nella veste originaria si profila come una tersa e limpidissima melodia cantabile. Si entra poi nell'ambito delle danze vere e proprie, con le due brillanti Gavottes, accoppiate fra loro secondo la prassi che le vuole legate tematicamente e che vuole la ripetizione della prima dopo l'esposizione di entrambe. Ad una elegante Bourrée, succede poi una dinamica Gigue conclusione consacrata, ma non scontata nei contenuti, della mirabile Suite.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Rosario Romeo amava ripetere ai suoi studenti che, a dispetto del senso comune, i "se" sono la materia prima dello storico: le ipotesi sono infatti necessarie per ricostruire la genesi di un avvenimento, per far emergere in controluce il profilo di un movimento, in qualche caso per correggere l'immagine che la tradizione ci ha consegnato di un'epoca intera o di un singolo uomo. Possiamo dunque chiederci che idea avremmo oggi di Bach se nel 1720, prima di trasferirsi a Lipsia, egli avesse ottenuto l'incarico di direttore musicale della cappella di San Giacomo ad Amburgo. E più concretamente quale visione avremmo della sua musica se le abitudini poco formali dei gruppi musicali che eseguivano il repertorio profano non avessero provocato la perdita di gran parte delle sue composizioni per orchestra, se dunque accanto alla straordinaria mole delle opere sacre possedessimo una quantità equivalente dei suoi lavori concepiti per l'intrattenimento e lo svago.

Quando non è possibile rimediare alle lacune della documentazione, le ipotesi ci soccorrono nel rendere la figura di Bach più sfumata e problematica, meno rinchiusa nel guscio di una devozione severa e più aperta al mondo, per così dire, tanto da rivelarsi disponibile anche al confronto con le mode culturali del suo tempo. In questa prospettiva, anche le opere sacre di Bach diventano una testimonianza importante e contribuiscono a mettere in questione i pregiudizi riferiti alla sua presunta ortodossia: in continuazione si ritrovano nelle cantate moduli che derivano dalle arie d'opera, dallo stile galante della musica francese, da un gusto semplificato della melodia che testimonia l'influsso dell'arte italiana. Non deve perciò sorprendere il fatto che la musica sacra di Bach sia stata spesso contestata dai contemporanei per la sua spiccata teatralità, cioè per l'abuso di un sensualismo che agli esponenti più rigidi della chiesa luterana appariva decisamente fuori luogo: la mescolanza di sacro e profano è il modo con cui il compositore si teneva al passo con i nuovi linguaggi e alimentava una tensione sempre latente nella sua musica. L'elemento generatore del conflitto è quello legato alla sfera mondana, all'osservazione dei costumi e dei risvolti sociali presenti nella musica. Nessun dogmatismo, nessuna aprioristica professione di fede riesce a rimuoverne l'efficacia e il peso: l'ipotesi più attendibile, dunque, è che al di là di quanto avviene nelle opere sacre, un elemento così importante debba trovare espressione in un altro settore dell'opera di Bach, che esso rappresenti un momento di ispirazione più leggera che si contrappone alla vena speculativa della sua produzione più conosciuta.

Quando ci avviciniamo alle opere per orchestra in nostro possesso, dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che non sono pagine isolate, singole creazioni trattate dal compositore con un certo disinteresse, che non si tratta di un'opera minore da affiancare a quella maggiore rappresentata dalla musica sacra o di ricerca, che dunque le proporzioni attuali del catalogo bachiano non riflettono in modo compiuto la sua produzione né dal punto di vista della quantità, né da quello degli interessi coltivati dall'autore durante la sua vita. Sappiamo ad esempio che a Lipsia, dove il suo ufficio principale era quello di Kantor della scuola di San Tommaso, Bach diresse dal 1729 al 1740 uno dei più importanti Collegia Musica della Germania, ovvero uno di quei complessi ai quali era di fatto delegata l'esecuzione di musica orchestrale al di fuori delle chiese e delle corti. Formati per lo più da studenti e da borghesi di ottima preparazione musicale, i Collegia Musica collaboravano all'epoca con i maggiori compositori in circolazione proprio per la qualità delle esecuzioni e per la libertà creativa che garantivano loro: prima di Bach, il Collegium Musicum di Lipsia era stato diretto da Telemann, il quale in seguito avrebbe fondato altri complessi dello stesso tipo ad Amburgo, portandoli a livelli considerati a quel tempo straordinari. Sembra inoltre che per tutto il decennio in cui ne curò la direzione, il lavoro con il Collegium Musicum abbia assorbito Bach ben più dell'impegno alla cantoria di San Tommaso. Delle opere preparate per questo ramo della sua attività ci è rimasto pochissimo, al punto che per conoscere meglio l'opera per orchestra di Bach bisogna risalire a un'epoca precedente, al periodo in cui Bach era alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen. Qui, fra il 1717 e il 1723, videro la luce le sue composizioni che oggi conosciamo e si perfezionò soprattutto uno stile molto personale e riconoscibile. Ai tempi di Köthen risale per esempio la confezione dei sei Concerti brandeburghesi, nei quali Bach riunì pagine composte in realtà anche in anni precedenti, in modo da organizzare la raccolta come una vera e propria silloge dello stile concertistico proprio e di quello dell'età barocca. Ma ai tempi di Köthen sono da riportare anche le quattro Ouvertures BWV 1066-1069 e la maggior parte dei concerti solistici che ci sono pervenuti, compreso il Concerto per violino e oboe 1060a.

Le Ouvertures devono il loro nome alla pagina che le introduce, ma la loro struttura è quella tipica delle suites: una libera successione di movimenti ispirati a ritmi di danza e articolati secondo un criterio che proviene direttamente dall'uso francese. Bach tuttavia non rispetta lo schema delle suites che si era consolidato nel corso del Seicento, basato sulla presenza di almeno quattro danze fondamentali: allemanda, corrente, sarabanda e giga. Egli omette regolarmente l'allemanda e lascia alle altre solo sporadiche apparizioni, tanto che l'unica danza fondamentale che troveremo nelle due Ouvertures in programma questa sera è la corrente, presente oltretutto solo nel primo brano, l'Ouverture in do maggiore BWV 1066. L'influsso dello stile francese, evidente fin nella scelta delle singole danze e nella loro denominazione, si riflette soprattutto nel tono solenne del movimento introduttivo, concepito secondo il tipo di espressività che ai tempi di Bach si definiva "sublime", e nel particolare taglio della scrittura ritmica. Abbondano gli elementi irregolari, le note puntate, le sincopi, le accelerazioni improvvise e i rallentamenti che all'interno delle singole battute producono una suddivisione del tempo in molti casi diversa da quella indicata all'inizio della partitura. Sono formule che derivano dal bagaglio linguistico della musica francese, in particolare da quella sfarzosa che Lully aveva portato a livelli di eccezionale perfezione ed efficacia, e che agli inizi del Settecento aveva attecchito anche nelle corti tedesche, compresa la piccola Köthen, venendo incontro a quel diffuso bisogno di autorappresentazione che la limitazione localistica dei poteri rendeva particolarmente urgente. Bach finì tuttavia per rigenerare gli aspetti più smaccatamente decorativi di quel linguaggio grazie all'introduzione di elementi personalissimi che ne mutarono profondamente il senso. Anche in opere disimpegnate come le Ouvertures, dunque, non manca il contrappunto, inserito da Bach per lo più nei movimenti estremi della composizione: in questi passaggi è come se lo spettacolo virtuosistico della danza si fermasse e lasciasse spazio a un gioco di pura intelligenza. Fuori dal contesto sacro, in altre parole, Bach usa il contrappunto come una forma di esercizio intellettuale che per la ragione illuministica ha lo stesso valore esemplificativo che hanno avuto gli scacchi per la logica del Novecento. La fuga introduce un principio di chiarezza, aggiunge certezza laddove tutto sembra invece affidato all'arbitrio dell'eleganza: ritmi e durate, rapporti armonici e melodie, queste ultime sempre piene di salti e di volute. Il barocco dei Concerti brandeburghesi aveva un accento sentimentale la cui derivazione alludeva di frequente all'Italia, al suo mondo di strumentisti virtuosi e di imprevedibili orchestratori. Nelle Ouvertures il barocco si mescola invece a un tono illuministico al tempo stesso ironico e condizionante. Bach vi celebra un duplice cerimoniale: da un lato quello delle corti, visibile nel francesismo delle danze; dall'altro quello delle accademie dei savants, con gli episodi fugati che rendono omaggio alla "scienza" come al vero sovrano assoluto dell'epoca moderna. C'è appena bisogno di ricordare il fatto che negli ultimi anni della sua vita Bach collaborò attivamente a una di queste accademie, quella fondata a Lipsia da un suo antico allievo, Lorenz Christoph Mizler, per concludere che oltre ad interessarsi degli aspetti speculativi della musica, Bach abbia saputo cogliere i riflessi sociali della nuova organizzazione del sapere, riproducendone con molta finezza nelle Ouvertures le gerarchie, gli atteggiamenti mondani e gli inediti cerimoniali.

L'Ouverture in re maggiore per tre trombe, due oboi, timpani e archi BWV 1068 conta un numero di danze particolarmente esiguo: sei numeri in tutto, e con la sola Gavotte ad essere accoppiata con il suo alternativo. L'effetto maggiore viene in questo caso dalla ricchezza e dalla varietà della strumentazione: l'intervento delle trombe e dei timpani conferisce un aspetto particolarmente solenne al movimento introduttivo, anche se l'energico episodio fugato che lo scuote improvvisamente serve una volta di più a equilibrare il tessuto musicale con le risorse dell'ironia e dell'intelligenza. Per tutta la composizione, però, l'alternarsi di piani sonori nettamente differenziati diventa il fulcro stilistico intorno a cui ruota la scrittura di Bach e la sua costante ricerca dell'effetto. Particolarmente suggestivo è quello che ottiene con l'Air, una lenta figura di danza basata su una melodia ampia, fortemente espressiva, nella quale con un tocco geniale Bach apre gli orizzonti poetici del patetico e del sentimentale.

Stefano Catucci

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nella versione celebrativa approntata per Lipsia, l'Ouverture n. 3 in re maggiore BWV 1068 esibisce sin dall'attacco tripudi festivi da trionfo barocco. Il primo movimento della pagina introduttiva è caratterizzato dal tradizionale ritmo puntato, scandito solennemente dal clangore delle trombe: il dilatato paesaggio sonoro di questa prima sezione si trasforma nel meccanismo contrappuntistico della seconda (segnata vite) e aperta da quella figura ritmica anapestica (caratterizzante, tra l'altro, il primo tempo dei Concerti brandeburghesi n. 2 e n. 3, ma anche, ad esempio, il coro della Cantata BWV 103 «Ihr werdet weinen und heulen») che assume sovente in Bach il connotato di simbolo festoso della gioia. L'Ouverture procede alternando episodi riservati al nastro di semicrome degii archi soli ad altri più corposi in cui vengono aggregati i fiati, fino alla consueta, simmetrica ripresa del movimento introduttivo. In seconda posizione è incastonata una gemma del lirismo bachiano, il celeberrimo Air, di cui si apprezzerà la bellezza della nuda strumentazione originaria per archi: soltanto una paginetta di partitura, che si rivela però un distillato di fascino melodico, un gioiello di equilibrio fra tensione espressiva, fioritura ornamentale e sottile ricamo contrappuntistico, sul quale si libra aereo il canto dei violino I. Le danze sono aperte da una Gavotte a organico pieno (con efficacissimo contrasto rispetto all'Air precedente): dalla gestualità marcata e quasi meccanica, è l'unica danza di questa serie a presentare la tradizionale forma tripartita che combina due danze gemelle secondo lo schema l-ll-l. Oboi e archi conducono anche la successiva, ben più dinamica Bourrée, alla quale le trombe conferiscono una mera doratura esornativa. La festa si chiude al passo di Gigue abilmente strumentata per organico pieno.

Raffaele Mellace


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 febbraio 1993
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 30 gennaio 1997
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 161 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 7 gennaio 2015