Ouverture n. 1 in do maggiore per orchestra, BWV 1066


Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Ouverture
  2. Courante
  3. Gavotte I, II
  4. Forlane
  5. Menuett I, II
  6. Bourrée I, II
  7. Passepied I, II
Organico: 2 oboi, fagotto, 2 violini, viola, continuo
Composizione: 1718 circa
Edizione: Peters, Lipsia, 1853
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il genere della Suite strumentale, formalizzatosi in una successione di danze precedute o meno da un'ouverture, si diffuse rapidamente in Germania a partire dalla fine del XVII secolo, sulla scia della moda francesizzante che contagiò la maggior parte delle corti tedesche del tempo, orientate a riconoscere in Versailles un preciso modello di riferimento politico-sociale e artistico-culturale. In ambito musicale il fenomeno comportò la progressiva assimilazione da parte dei compositori tedeschi dell'epoca non solo dei modi e delle forme della musica strumentale francese, ma anche dello spirito della danza e della galanterie che di quel modello erano considerate le manifestazioni più affascinanti e "alla moda". Kusser, Kuhnau, Telemann, Bach, Muffat, Graupner, Fasch, sono solo alcuni dei protagonisti di un processo più generale che favorì la penetrazione di quelle influenze anche in altri contesti stilistico-formali, come la cantata o il concerto, dando origine a degli "ibridi" musicali di cui il Primo Brandeburghese o le Suites-Concerto di Telemann costituiscono forse gli esempi più conosciuti.

Delle quattro Ouvertures per orchestra di Johann Sebastian Bach a noi giunte (alcuni lavori dello stesso tipo sono andati perduti, mentre quella in sol minore BWV 1070 è probabilmente opera di scuola bachiana), non possediamo alcuna fonte autografa. Fanno eccezione alcune parti staccate della Seconda e Terza Suite, databili tra il 1730 e il 1738, e riferibili con tutta probabilità - assieme a gran parte della documentazione non autografa delle quattro composizioni - all'attività musicale del Collegium musicum di Lipsia, del quale Bach aveva assunto la direzione nel 1729 e al cui repertorio contribuì ampiamente con rifacimenti di brani precedentemente composti. Nonostante le incertezze, dovute alla mancanza di una documentazione sufficientemente precisa e all'opera di rielaborazione a cui Bach sottopose le quattro Ouvertures (titolo adoperato all'epoca per indicare questi lavori, essendo quello di suite meno frequentemente usato per i pezzi polistrumentali), oggi si è sostanzialmente concordi nel fissare la data di composizione delle quattro partiture agli anni di Köthen (1717-1723), periodo nel quale Bach fu chiamato a ricoprire l'incarico di Kapellmeister della locale cappella di corte, e al quale risale il corpus più consistente delle sue opere strumentali.

Il principe Leopold di Anhalt-Köthen (1694-1728), buon cantante ed ottimo suonatore di cembalo e viola da gamba, s'impegnò con determinazione alla creazione di un eccellente ensemble di musicisti. Dopo aver frequentato l'Accademia dei giovani nobili di Berlino, aveva continuato a mantenere buoni rapporti con l'ambiente musicale di quella città e non indugiò ad invitare presso di sé quei musicisti berlinesi che Federico Guglielmo I, il re soldato, aveva licenziato subito dopo essere succeduto a Federico I di Prussia, morto nel febbraio 1713. Al momento dell'assunzione di Bach, la cappella - alle cui esecuzioni si univa talvolta lo stesso principe - comprendeva 16 strumentisti, divisi nella doppia qualifica di Kammer-Musicus, con compiti di maggiore responsabilità, e Musicus, con funzioni di coadiutore; ma all'occorrenza il complesso poteva essere rinforzato da musicisti appositamente scritturati. Diversamente dalla luterana corte di Weimar, dove Bach aveva precedentemente ricoperto il posto di organista e di Konzertmeister, ossia di primo violino, nella calvinista corte di Köthen non c'era spazio per la musica sacra; e se è vero che è a Weimar che Bach venne a conoscenza delle composizioni vivaldiane - trascrivendone alcune per organo o cembalo - e che l'ouverture era stata da lui occasionalmente utilizzata già in alcune delle Cantate scritte in quella città (BWV 61 e 152), è a Köthen che egli ebbe modo per la prima volta di confrontarsi con il Concerto italiano e la Suite francese in tutte le loro peculiarità formali e stilistiche.

L'Ouverture n. 1 in do maggiore BWV 1066 dovrebbe collocarsi nel corso del primo anno dell'incarico assunto da Bach presso il principe Leopold (1718). Il piano generale dell'opera, la presenza di un'ouverture di tipo lulliano e l'assenza dell'allemanda, vale a dire della danza tedesca per eccellenza, sono tratti che l'accomunano alle tre composizioni consorelle; tuttavia, mentre in quelle compaiono anche brani che non appartengono al novero delle danze propriamente dette, in questa si succedono solo movimenti di danza e tutti di origine francese o - nel caso della forlane - comunque francesizzati. Come nelle altre tre Suites, il pezzo di maggior peso dell'intera composizione, per ampiezza complessiva e per numero di parti (sette contro le quattro o le tre delle danze), è quello iniziale, ossia l'Ouverture vera e propria elaborata secondo il consueto schema tripartito "alla francese": grave - allegro - grave. I due tempi lenti, d'andamento solenne e dai tipici ritmi puntati con volatine e note ornamentali, inquadrano una sezione fugata in cui s'inseriscono diversi episodi concertanti affidati ad un trio formato da due oboi e un fagotto, che ripropongono in un vivace gioco contrappuntistico-imitativo alcuni spunti motivici tratti dal tema d'apertura.

Un'aristocratica Courante, la sola delle quattro danze fondamentali che generalmente costituivano una suite a comparire nella partitura (e per l'unica volta in tutte e quattro le Ouvertures), dà inizio, in una regolare alternanza di ritmi ternari e binari, alla successione delle danze, tutte di struttura bipartita con ritornelli e modulazione alla dominante. All'eleganza della Courante fa riscontro, dopo la Gavotte I e II, una Forlane, antica danza friulana di movimento rapido e ritmo di 6/4, affermatasi con un certo successo in Francia specie negli opéra-ballets di Campra: la rusticheggiante melodia degli oboi e dei violini primi è "sapientemente" sostenuta da un'agile successione di sestine di crome dei violini secondi e delle viole, mentre i bassi, che nella prima parte della danza si limitano ad una semplice nota-pedale ottaveggiata, nella seconda acquisiscono un andamento più mosso fino a scandire omoritmicamente il motivo principale con il resto dell'orchestra.

La presenza di quattro danze doppie, distinte in I e II, con modifica del tema e della strumentazione è tipica della Ouverture n. 1, e le diverse soluzioni timbrico-coloristiche adottate ne costituiscono forse il lato più affascinante. Nella Gavotte II, violini e viole all'unisono contrappongono un militaresco motivo "a fanfara" alla scorrevole melodia degli oboi prevalentemente per terze e seste parallele. Al contrario, nel delicato Menuet II la scrittura orchestrale si restringe agli archi e basso continuo, mentre nella Bourrée II - il solo brano che, in do minore e con modulazione al relativo maggiore (mi bemolle), si allontana dal piano tonale generale della suite - al terzetto di fiati. Nel Passepied II, l'unico pezzo assieme alla Bourrée II ad essere scritto a tre voci, infine, i violini e le viole ripropongono, con un bellissimo effetto di oscuramento timbrico, il tema della danza precedente contrappuntandolo con una nuova melodia degli oboi. Ciascuna delle quattro coppie di danze va eseguita alternativement, facendo cioè seguire l'intera esposizione dei due brani dalla ripetizione del primo senza i ritornelli prescritti. Se da un lato il vivace gioco di stacchi, rispondenze e riprese si arricchisce di nuovi effetti di simmetria e colore, dall'altro, come scrive Alberto Basso, «lo spirito popolare che in qualche modo aleggia sulla serie delle danze - in antitesi con la solenne, severa e aristocratica ouverture alla francese - riacquista così, attraverso un artificioso processo di alternanze, una dimensione accademica, rituale, manierata, quale appunto conveniva ad un'Hofmusik o ad una musica di cerimonia o da concerto».ù

Carlo Carnevali

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Rosario Romeo amava ripetere ai suoi studenti che, a dispetto del senso comune, i "se" sono la materia prima dello storico: le ipotesi sono infatti necessarie per ricostruire la genesi di un avvenimento, per far emergere in controluce il profilo di un movimento, in qualche caso per correggere l'immagine che la tradizione ci ha consegnato di un'epoca intera o di un singolo uomo. Possiamo dunque chiederci che idea avremmo oggi di Bach se nel 1720, prima di trasferirsi a Lipsia, egli avesse ottenuto l'incarico di direttore musicale della cappella di San Giacomo ad Amburgo. E più concretamente quale visione avremmo della sua musica se le abitudini poco formali dei gruppi musicali che eseguivano il repertorio profano non avessero provocato la perdita di gran parte delle sue composizioni per orchestra, se dunque accanto alla straordinaria mole delle opere sacre possedessimo una quantità equivalente dei suoi lavori concepiti per l'intrattenimento e lo svago.

Quando non è possibile rimediare alle lacune della documentazione, le ipotesi ci soccorrono nel rendere la figura di Bach più sfumata e problematica, meno rinchiusa nel guscio di una devozione severa e più aperta al mondo, per così dire, tanto da rivelarsi disponibile anche al confronto con le mode culturali del suo tempo. In questa prospettiva, anche le opere sacre di Bach diventano una testimonianza importante e contribuiscono a mettere in questione i pregiudizi riferiti alla sua presunta ortodossia: in continuazione si ritrovano nelle cantate moduli che derivano dalle arie d'opera, dallo stile galante della musica francese, da un gusto semplificato della melodia che testimonia l'influsso dell'arte italiana. Non deve perciò sorprendere il fatto che la musica sacra di Bach sia stata spesso contestata dai contemporanei per la sua spiccata teatralità, cioè per l'abuso di un sensualismo che agli esponenti più rigidi della chiesa luterana appariva decisamente fuori luogo: la mescolanza di sacro e profano è il modo con cui il compositore si teneva al passo con i nuovi linguaggi e alimentava una tensione sempre latente nella sua musica. L'elemento generatore del conflitto è quello legato alla sfera mondana, all'osservazione dei costumi e dei risvolti sociali presenti nella musica. Nessun dogmatismo, nessuna aprioristica professione di fede riesce a rimuoverne l'efficacia e il peso: l'ipotesi più attendibile, dunque, è che al di là di quanto avviene nelle opere sacre, un elemento così importante debba trovare espressione in un altro settore dell'opera di Bach, che esso rappresenti un momento di ispirazione più leggera che si contrappone alla vena speculativa della sua produzione più conosciuta.

Quando ci avviciniamo alle opere per orchestra in nostro possesso, dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che non sono pagine isolate, singole creazioni trattate dal compositore con un certo disinteresse, che non si tratta di un'opera minore da affiancare a quella maggiore rappresentata dalla musica sacra o di ricerca, che dunque le proporzioni attuali del catalogo bachiano non riflettono in modo compiuto la sua produzione né dal punto di vista della quantità, né da quello degli interessi coltivati dall'autore durante la sua vita. Sappiamo ad esempio che a Lipsia, dove il suo ufficio principale era quello di Kantor della scuola di San Tommaso, Bach diresse dal 1729 al 1740 uno dei più importanti Collegia Musica della Germania, ovvero uno di quei complessi ai quali era di fatto delegata l'esecuzione di musica orchestrale al di fuori delle chiese e delle corti. Formati per lo più da studenti e da borghesi di ottima preparazione musicale, i Collegia Musica collaboravano all'epoca con i maggiori compositori in circolazione proprio per la qualità delle esecuzioni e per la libertà creativa che garantivano loro: prima di Bach, il Collegium Musicum di Lipsia era stato diretto da Telemann, il quale in seguito avrebbe fondato altri complessi dello stesso tipo ad Amburgo, portandoli a livelli considerati a quel tempo straordinari. Sembra inoltre che per tutto il decennio in cui ne curò la direzione, il lavoro con il Collegium Musicum abbia assorbito Bach ben più dell'impegno alla cantoria di San Tommaso. Delle opere preparate per questo ramo della sua attività ci è rimasto pochissimo, al punto che per conoscere meglio l'opera per orchestra di Bach bisogna risalire a un'epoca precedente, al periodo in cui Bach era alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen. Qui, fra il 1717 e il 1723, videro la luce le sue composizioni che oggi conosciamo e si perfezionò soprattutto uno stile molto personale e riconoscibile. Ai tempi di Köthen risale per esempio la confezione dei sei Concerti brandeburghesi, nei quali Bach riunì pagine composte in realtà anche in anni precedenti, in modo da organizzare la raccolta come una vera e propria silloge dello stile concertistico proprio e di quello dell'età barocca. Ma ai tempi di Köthen sono da riportare anche le quattro Ouvertures BWV 1066-1069 e la maggior parte dei concerti solistici che ci sono pervenuti, compreso il Concerto per violino e oboe 1060a.

Le Ouvertures devono il loro nome alla pagina che le introduce, ma la loro struttura è quella tipica delle suites: una libera successione di movimenti ispirati a ritmi di danza e articolati secondo un criterio che proviene direttamente dall'uso francese. Bach tuttavia non rispetta lo schema delle suites che si era consolidato nel corso del Seicento, basato sulla presenza di almeno quattro danze fondamentali: allemanda, corrente, sarabanda e giga. Egli omette regolarmente l'allemanda e lascia alle altre solo sporadiche apparizioni, tanto che l'unica danza fondamentale che troveremo nelle due Ouvertures in programma questa sera è la corrente, presente oltretutto solo nel primo brano, l'Ouverture in do maggiore BWV 1066. L'influsso dello stile francese, evidente fin nella scelta delle singole danze e nella loro denominazione, si riflette soprattutto nel tono solenne del movimento introduttivo, concepito secondo il tipo di espressività che ai tempi di Bach si definiva "sublime", e nel particolare taglio della scrittura ritmica. Abbondano gli elementi irregolari, le note puntate, le sincopi, le accelerazioni improvvise e i rallentamenti che all'interno delle singole battute producono una suddivisione del tempo in molti casi diversa da quella indicata all'inizio della partitura. Sono formule che derivano dal bagaglio linguistico della musica francese, in particolare da quella sfarzosa che Lully aveva portato a livelli di eccezionale perfezione ed efficacia, e che agli inizi del Settecento aveva attecchito anche nelle corti tedesche, compresa la piccola Köthen, venendo incontro a quel diffuso bisogno di autorappresentazione che la limitazione localistica dei poteri rendeva particolarmente urgente. Bach finì tuttavia per rigenerare gli aspetti più smaccatamente decorativi di quel linguaggio grazie all'introduzione di elementi personalissimi che ne mutarono profondamente il senso. Anche in opere disimpegnate come le Ouvertures, dunque, non manca il contrappunto, inserito da Bach per lo più nei movimenti estremi della composizione: in questi passaggi è come se lo spettacolo virtuosistico della danza si fermasse e lasciasse spazio a un gioco di pura intelligenza. Fuori dal contesto sacro, in altre parole, Bach usa il contrappunto come una forma di esercizio intellettuale che per la ragione illuministica ha lo stesso valore esemplificativo che hanno avuto gli scacchi per la logica del Novecento. La fuga introduce un principio di chiarezza, aggiunge certezza laddove tutto sembra invece affidato all'arbitrio dell'eleganza: ritmi e durate, rapporti armonici e melodie, queste ultime sempre piene di salti e di volute. Il barocco dei Concerti brandeburghesi aveva un accento sentimentale la cui derivazione alludeva di frequente all'Italia, al suo mondo di strumentisti virtuosi e di imprevedibili orchestratori. Nelle Ouvertures il barocco si mescola invece a un tono illuministico al tempo stesso ironico e condizionante. Bach vi celebra un duplice cerimoniale: da un lato quello delle corti, visibile nel francesismo delle danze; dall'altro quello delle accademie dei savants, con gli episodi fugati che rendono omaggio alla "scienza" come al vero sovrano assoluto dell'epoca moderna. C'è appena bisogno di ricordare il fatto che negli ultimi anni della sua vita Bach collaborò attivamente a una di queste accademie, quella fondata a Lipsia da un suo antico allievo, Lorenz Christoph Mizler, per concludere che oltre ad interessarsi degli aspetti speculativi della musica, Bach abbia saputo cogliere i riflessi sociali della nuova organizzazione del sapere, riproducendone con molta finezza nelle Ouvertures le gerarchie, gli atteggiamenti mondani e gli inediti cerimoniali.

L'Ouverture in do maggiore per due oboi, fagotto e archi BWV 1066 ha, come la maggior parte delle ouvertures bachiane, una distribuzione delle parti strumentali che cambia da movimento a movimento. Quello d'apertura è a sette parti, con due oboi e fagotto in primo piano, due violini e una viola sullo sfondo, oltre al basso continuo realizzato dal clavicembalo ed eventualmente da altri strumenti ad arco, come il violoncello o il violone. Nelle danze successive, il fagotto sfila in secondo piano, unendosi allo strumento a tastiera nella realizzazione del continuo, mentre gli oboi vengono talvolta affiancati dal primo violino in funzione solistica. Due volte, tuttavia, l'organico viene diminuito da Bach a tre soli strumenti: è il caso del Menuet II, privo di strumenti a fiato, e della Bourrée II, eseguita invece solo dai due oboi e dal fagotto. Dal punto di vista del numero delle danze incluse, quella in do maggiore è la suite più ampia, con ben dieci movimenti tutti ispirati a danze di provenienza francese, compresa quella Forlane che, nonostante l'origine friulana, era stata acquisita dalla musica di corte solo attraverso il modello rielaborato dai musicisti di Versailles. A parte la Courante e la Forlane, tutte le danze sono accompagnate dal loro alternativo, cioè da una seconda versione nella quale vengono modificati sia il tema, sia l'organico strumentale. La prassi esecutiva prevedeva che in questo caso, dopo la fine dell'alternativo, venisse rieseguita la prima danza della coppia, ma senza ritornelli, dunque in forma abbreviata. Si metteva così in scena un rigido cerimoniale di alternanze e riprese che in qualche modo veniva a riaffermare il carattere cortese, raffinato di queste ouvertures, diminuendo la loro dipendenza da uno spirito più popolaresco che resta comunque inscritto nell'origine e nella vivacità di ciascuna danza.

Stefano Catucci

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Giunta fino a noi probabilmente nella versione originaria concepita per Köthen (si tratta in effetti del lavoro dall'orchestrazione meno ricercata), l'Ouverture n. 1 BWV 1066, si apre squadernando uno spazio sonoro disteso e sereno nella solare tonalità di Do maggiore, offrendo all'ascoltatore una superficie sonora mirabilmente tesa tra movimento e immobilità. Segue a questa pagina il consueto movimento veloce, una fuga il cui tema vigoroso viene coinvolto in un congegno compositivo che integra la presenza pervasiva della testa del tema all'interno di una struttura concertante non aliena da sonorità cameristiche, in cui si valorizza il trio, di tradizione francese, dei due oboi e del fagotto, impiegato in perfetta solitudine oppure sopra il discreto sottofondo degli archi. La suite delle danze si apre con una Courante a organico pieno, non accompagnata da una pagina gemella a differenza di quanto accade normalmente in questa partitura. Gavotte, Menuet, Bourrée e Passepied sono infatti tutte accostate a una versione contrastante, di norma affidata al timbro dei fiati. Particolarmente suggestivo il contrasto realizzato dalla Bourrée II in do minore e il dolcissimo Passepied II. Tra le canoniche danze francesi, compare anche un'insolita popolaresca Forlane, ballo simile alla giga, in 6/4, di origine friulana: in voga per tutto il Settecento è presente un po' a tutte le latitudini, dagli opéra-ballets d Campra alle opere buffe di Cimarosa.

Raffaele Mellace


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 18 febbraio 2000
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 30 gennaio 1997
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 161 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 7 gennaio 2015