Concerto n. 4 in la maggiore per clavicembalo e orchestra, BWV 1055


Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Allegro
  2. Larghetto (fa diesis minore)
  3. Allegro ma non tanto
Organico: clavicembalo, 2 violini, viola, continuo
Composizione: 1738
Edizione: Peters, Lipsia, 1851

Trascrizione per clavicembalo di un Concerto per oboe d'amore perduto
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La storia dei rapporti di Johann Sebastian Bach con la forma del concerto si svolge attraverso varie tappe che coincidono con alcuni momenti fondamentali non solo della sua carriera creativa, ma in senso lato del suo ufficio di maestro di cappella e di compositore di corte. La prima occasione per accostarsi al nuovo genere, abbandonando la sfera ristretta del repertorio musicale legato all'ambiente municipale ed ecclesiastico nel quale il musicista si era formato, gli fu data dalla nomina a Kammermusikus und Hoforganist presso la corte di Weimar nel 1708, trasformata nel 1714 in quella di Konzertmeister. Le pratiche incombenze di Bach lo portavano a ricercare e ad eseguire le opere di Vivaldi, Albinoni, Legrenzi, Benedetto e Alessandro Marcello, Bonporti, di quella «scuola lombarda», insomma, che aveva in grazia della singolare novità del credo estetico da essa propugnato, vastissima diffusione ed entusiastico seguito nell'ambiente musicale tedesco del primo Settecento. Basti pensare a musicisti come Heinichen, Stölzer, Quantz e allo stesso Telemann, germanizzante per puntiglio ed italianizzante per vocazione.

Nella corte di Weimar, il «gusto italiano» aveva nell'organista J. Walther e nel geniale nipote del Duca, Johann Ernst due valorosi ed autorevoli seguaci. In questo contesto si inserisce anche l'incontro di Bach con la musica di Vivaldi, senz'altro il maestro italiano che più lo colpì (com'è confermato dalle testimonianze di Wilhelm Friedmann e Carl Philipp Emmanuel Bach riportate dal Forkel, così come dal numero di concerti che egli trascrisse.

Sotto quale profilo debbono essere considerate queste trascrizioni bachiane? Da un punto di vista propriamente estetico il problema che esse pongono è affine a quello che in sede letteraria si stabilisce nel confronto tra opera originale e traduzione. E se in letteratura, secondo una felice definizione, la traduzione migliore è quella che si serve del linguaggio che l'autore avrebbe usato se si fosse espresso nella lingua del traduttore, così in musica la trascrizione più felice sarà quella che saprà trasporre una costruzione sonora da un ambito all'altro, rispettando il senso espressivo dell'originale e insieme l'individualità fonica e stilistica dello strumento che funge da nuovo tramite tra l'intuizione estetica, la trama formale preesistente, e il suo concreto correlato fisico. In altre parole, la traduzione e la trascrizione si sollevano da un piano puramente pratico a un livello estetico nella misura nella quale il nuovo sistema espressivo impiegato si innalza, da semplice supporto di comodo per un'idea data a profonda, vissuta incarnazione di essa, a una nuova forma che instaura su altre premesse e su rinnovate basi un rapporto di dipendenza dialettica con il vecchio contenuto (se è ancora lecito esprimersi con questi termini di comodo).

Per questo Bach, quando ripensa, ad esempio, per l'organo l'intuizione orchestrale vivaldiana, non si limita a riprodurre meccanicamente l'alternanza «tutti/concertino» o «tutti/solo» degli originali con il variato gioco delle tastiere, l' Oberwerk e il Rückpositiv, ma non esita, pur rispettando lo spirito dell'originale, a reinventarlo, laddove certi stilemi di indubbia efficacia nel linguaggio violinistico, avrebbero perduto ogni rilievo sul nuovo strumento. Ma non si tratta, ovviamente, solo di questo. Ciò che più colpisce, è la trasformazione del concerto italiano da una dimensione brillante ed estroversa, a una composizione di spirito intimamente cameristico, nella quale polifonia e stile concertante, imitazione e tecnica dello sviluppo tematico, contrappunto e armonia si intersecano e si fondono. Ciò avviene attraverso una serie di piccole ma non per questo meno essenziali e determinanti modificazioni degli originali. I bassi sono resi più vari e più mobili, trasformati da semplice fondamento armonico in parti tematiche, concertanti; viene arricchita la tessitura intermedia, la scrittura originale di carattere essenzialmente omoritmico, con la sua enfasi sulla parte cantabile, viene ripensata in chiave polifonico-contrappuntistica; i contrasti dinamici, attuati attraverso la contrapposizdone di campi di diverso peso e spessore fonico, vengono sostituiti da più articolati processi di sviluppo del materiale tematico. In realtà, non si comprende il senso di queste trascrizioni ove non si consideri il loro aspetto di meditazioni stilistiche, dettate dall'esigenza di attuare una sintesi tra la logica costruttiva dei modelli italiani e la tradizione tedesca.

In chiave non diversa deve essere guardata l'attività compositiva di Bach nel settore del concerto nel periodo in cui egli ricoprì la carica di Kapellmeister presso la corte di Köthen. Qui il ripensamento della prassi compositiva italiana non si attua più attraverso il processo della trascrizione, bensì mediante la composizione vera e propria sia di concerti per violino, sia di quei Concerti Brandeburghesi che codificano, in senso tipicamente bachiano, un'ideale Kunst des Konzertes.

Nel periodo di Lipsia, infine, in seguito all'esteriore sollecitazione non più di un'ambiente di corte, ma degli obblighi connessi alla sua funzione del Telemannscher Orchesterverein, il Collegium Musìcum dell'Università lipsiense fondato da Telemann, nonché dalla necessità di predisporre un repertorio per un'attività musicale casalinga, cui partecipavano familiari e allievi, Bach giunge alla scoperta di un genere affatto nuovo, il concerto per cembalo.

Vero è che il Quinto concerto brandeburghese costituisce un passo decisivo in questa direzione, attuato sin dal 1721, in quanto dei tre strumenti che costituiscono la compagine del concertino, flauto, violino piccolo e cembalo, quest'ultimo si stacca dagli altri con una scrittura di rilevata autonomia e di brillante audacia virtuoslstica: ma si è pur sempre all'interno della struttura del concerto grosso.

Il passaggio al concerto solistico per cembalo avviene - e questo conferma l'importanza delle precedenti trascrizioni da modelli italiani - non attraverso composizioni originali, ma mediante la rielaborazione di preesistenti concerti dello stesso Bach (o di altri) per strumenti melodici, soprattutto per violino.

Contrariamente a quanto si potrebbe superficialmente pensare, data l'origine di queste composizioni, i concerti per cembalo costituiscono il culmine, non solo in senso cronologico, ma in quello propriamente stilistico, della concezione bachiana del concerto. Infatti la tendenza alla concentrazione della scrittura concertante attraverso la condotta contrappuntistica e l'elaborazione dei nuclei tematici è qui portata alle estreme conseguenze.

Il Concerto per cembalo in la maggiore (BWV 1055) insieme al Concerto per cembalo in fa minore (BWV 1056) sono tra le composizioni sostanzialmente più vicine alle matrici italiane del concerto barocco.

E' stato giustamente osservato, per esempio, che nessun altro concerto bachiano presenta una più violenta contrapposizione di atmosfere espressive tra i tempi estremi e la liricità del lento centrale quanto il Concerto in la maggiore BWV 1055; qualche elemento enigmatico è rappresentato anche dalla struttura del finale, che sembra diluire la linearità della sua impostazione tematica in un sin troppo diffuso caleidoscopio di figurazioni secondarie, riccamente abbellite secondo un gusto melodico di ascendenza francese. Basandosi, su queste singolarità di scrittura (alle quali potrebbe aggiungersi la curiosa mancanza di coincidenza tra il basso orchestrale e quello della parte cembalistica), molti studiosi hanno ipotizzato che la fonte del concerto possa essere un concerto per violino (in si bemolle maggiore?) dovuto a un autore diverso da Bach.

Francesco Degrada

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Prima e dopo i brandeburghesi (tenendo per buona la data della dedica, cioè il 1721) ci sono rimasti altri concerti: fra questi è il caso di ricordare i primi tre (BWV 1041-3) datati 1720; un fitto gruppo quindi per clavicembalo e archi (elaborati da altri concerti in parte, perduti) che si possono riferire agli anni 1730-33, periodo in cui il compositore dirige il Collegium Musicum e ha urgente necessità di nuovo materiale; infine, sempre degli stessi anni, tranne un caso, i concerti per 2, 3, 4 clavicembali e archi. In programma ascolteremo, oltre ai brandeburghesi, anche due del secondo gruppo, precisamente quello in re minore (BWV 1052) e quello in la maggiore (BWV 1055). Il primo proviene da un concerto per violino che è andato perduto, con alcune varianti; il secondo probabilmente da un concerto per oboe d'amore, pure perduto. Risulta piuttosto chiaro come questi due concerti, insieme con tutti gli altri "trascritti", al di là del loro valore intrinseco risultino preziosi proprio perchè gli originali sono andati perduti, oltre al potenziamento di uno strumento, il clavicembalo, che qui diventa solista con nuovi rapporti di forza nei confronti del ripieno.

Non molto diverso il rapporto fra solista e orchestra nell'altro, il Concerto in la maggiore [l'autore del testo si riferisce al Concerto BWV 1052. n.d.r.]. In tutta la prima parte dell'Allegro il clavicembalo risulta prevalentemente concertante, con vari raddoppi, in un insieme molto elaborato. Anche il tempo centrale di questo Concerto (Larghetto) isola più scopertamente il solista, che riserva a sé un movimento morbido pressoché continuo di semicrome, nel ritmo disteso di 12/8, lasciando però all'orchestra una precisa funzione tematica. Il terzo tempo ripropone i rapporti visti nel primo: si tratta di un Allegro ma non tanto in 3/8, spigliato e vivissimo, animato internamente, nel suo ritmo serrato, da evoluzioni di trentaduesimi e dalle estrose sequenze di terzine del clavicembalo, in un insieme felicissimo di movimento e fantasia.

Renato Chiesa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 30 novembre 1973
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 21 dicembre 1989


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Ultimo aggiornamento 17 novembre 2016